Per tutto il Novecento Sciacca è soggetta ad influssi artistici e sperimentazioni tecnico - formali che trasformano il territorio in una fucina di autori dal differente linguaggio (figurativo e/o astratto).
Rispetto al panorama nazionale gli umori e le problematiche del contemporaneo sono percepiti con ritardo. Alcuni artisti risultano essere stilisticamente più o meno progressisti di altri, e questo è dovuto alla realtà provinciale dei piccoli centri. Per facilitare il lettore alla comprensione del fenomeno artistico saccense del Novecento ho stabilito una suddivisione generazionale, motivata non solo dalla vicinanza anagrafica tra gli autori, ma anche dal parametro linguistico a cui fanno riferimento.
Tra gli anni Cinquanta e Novanta, infatti, si possono così distinguere: artisti della prima, della seconda e della terza generazione.
Ma quali sono i carburatori dell’evoluzione/mutazione artistica negli ultimi cento anni?
Non dimenticando il retaggio artistico che Sciacca possiede da sempre, i carburatori sono tre: la nascita della Scuola d’Arte negli anni Quaranta, la morte di Filippo Bentivegna e l’attività delle gallerie private.
Il processo di miglioramento artistico ha inizio negli anni Sessanta e tocca il suo apice negli anni Ottanta-Novanta, anni decisivi per la storia dell’arte contemporanea saccense.
Negli anni Cinquanta, superata la crisi post-bellica, iniziano a manifestarsi chiari segnali di apertura culturale con la nascita di punti di aggregazione per menti brillanti come il Circolo di Cultura (circolo universitario) e il Caffè Scandaliato.
Nonostante ciò, la città non è ancora pronta a scrollarsi di dosso il proprio retaggio culturale-artistico strutturato sulla mimesi.
Le sporadiche esperienze moderniste vengono giudicate come “il modo più semplice” per arrivare al successo e per scavalcare le prassi accademiche, infatti, la maggior parte degli autori della prima generazione del Novecento si concentrano sulle esperienze impressioniste e veriste.
La promozione artistica è caldeggiata, soprattutto, da un periodo di positività economica (fino agli anni Novanta), che rende agevole l’investimento di pubblici e privati nell’acquisto di opere d’arte.
Sono attive in quegli anni le gallerie “Il Punto” e “Xacca”, che diventano anche punti di ritrovo per artisti, amatori, critici e collezionisti.
Negli anni Settanta, dopo la morte di Filippo Bentivegna (1967), cominciano a verificarsi sempre più spesso manifestazioni avanguardiste (ormai storicizzate), merito anche di una maggiore apertura mentale.
Se il parametro linguistico adottato dagli autori della prima generazione (principalmente) è quello della mimesi, per quelli della seconda generazione è la forma e il colore.
Essi (ad eccezione di alcuni che preferiscono approfondire le sperimentazioni mimetiche) si focalizzano sulla risoluzione delle problematiche della forma, ricercando la loro identità nei loro miti, nei pionieri delle correnti artistiche del Novecento, fino a costituire una rapida riconoscibilità attraverso tecniche, soggetti e motivi ricorrenti.
Sul finire degli anni Sessanta le prime esperienze di smaterializzazione informale (anch’esse percepite con uno scarto di dieci- vent’anni) vengono avvertite dai più giovani: la terza generazione, e marginalmente anche dagli autori della seconda generazione. Segno e materia rappresentano, infatti, il “nuovo” parametro linguistico di riferimento.
Il motore di tutto ciò è la ventata di aria fresca portata dagli umori della contestazione giovanile sessantottesca. Ciò che si ricerca è un taglio netto col passato.
Nel 1970 diversi artisti della seconda e della terza generazione: Franco Accursio Gulino, Antonino Nacci, Giuseppe Montalbano, Vincenzo Nucci, Vincenzo Sciamè, Rosario Bruno, Lorenzo Cascio e Leonardo Fisco formano un gruppo per la mostra “Otto Artisti Saccensi”, presso la galleria “La Robinia” di Palermo.
L’evento ha grande successo, ma per mancanza di una visione o di un manifesto comune il gruppo si scioglie.
La scena artistica degli anni Settanta è linguisticamente ingarbugliata e poliforme: alcuni autori fanno riferimento all’imitazione della natura; altri guardano con avido interesse le avanguardie storiche; e altri, ancora, ricercano nei meandri del segno e della materia una risposta ai problemi dell’arte.
Le gallerie che operano in questo periodo sono: “Le tre Bifore”, “La Ginestra”, “La Bottega”, “L’Incontro” e “Le Stanze del Segno”.
Negli anni Ottanta-Novanta sono attivi lo studio di incisione “A4” e “L’Atelier di Rosario Bruno”, uno spazio che diventa il ponte tra la realtà di Sciacca e il panorama artistico nazionale, oltre che essere un ritrovo per gli artisti locali.
Dal Duemila in poi la situazione va a decrescere e si fa sempre più complessa soprattutto per i giovani artisti. Il deficit economico ipersensibilizza sia gli acquirenti, che vedono spesso nell’arte un futile lusso, che i potenziali galleristi, riluttanti all’idea di aprire spazi espositivi privati.
La scarsa attenzione comunale nei confronti dell’arte e l’assenza di luoghi istituzionali idonei all’esposizione è goffamente colmata dalle associazioni culturali che danno il loro contribuito nel limite delle loro possibilità economiche.
La collettiva ‘900 ha l’obiettivo di evidenziare il potenziale artistico contemporaneo (e non solo storico) della città di Sciacca, mettendo in risalto l’utilità di una pinacoteca civica in grado di ospitare l’intera collezione comunale (di cui la mostra ne presenta solo una parte) col proposito di essere in futuro completata dalle opere di autori non ancora presenti.
L’istituzione di tale organismo sarebbe uno strumento necessario per mappare i periodi e le variazioni linguistiche che intercorrono tra una generazione e un’altra, ma soprattutto uno strumento divulgativo al fine di avere un quadro chiaro del panorama artistico saccense e della sua evoluzione.
Anthony Francesco Bentivegna
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