Un silenzio inconferente, pesante, assolutamente lontano dall’umano essere, colmo di assenza.
Un’assenza sorta nel vano tentativo di non ferire, di non mortificare, di non uccidere.
Cos’è il vuoto assordante se non l’acromaticità di una tela in cui il bianco implora con tono sibilante di poter emergere dal buio?
Che sapore ha un abbraccio simile ad uno stritolamento in cui il nero domina, frantumando, granello dopo granello, la necessità di comunicare l’arcana verità?
Solo chi porta il peso del vuoto può sentire la ponderosità di una voce velata o di un urlo silenzioso.
Un urlo aspro, stridulo e strozzato, che si posa come un grosso macigno nel proprio petto e sovente riduce, momento dopo momento, il respiro.
Più il vuoto si propaga, più diventa vasto, più rende fitta la trama.
Si accavallano fili, si stratificano pennellate, si accumula materia, generando un groviglio talmente ingarbugliato ed incomprensibile, da rendere impossibile la sua decodificazione.

Serve fare un passo, forse due,... È un impraticabile spazio buio, che muta i propri confini.
Solo calpestando i cocci e le schegge disseminate nel terreno melmoso si possono raggiungere quelle pareti in cui sono incise iscrizioni ormai illeggibili: e’ questo il sadico gioco del vuoto.
Vuoto, che Nadia De Giorgio percepisce come distruzione, come dissonanza di un sentire alterato da una mutevole trama tessuta da un Trickster, che passo dopo passo, cancella, smantella ed altera ogni fase del racconto.
L’autrice, attraverso una materia bruta, spigolosa e ramificata, riassembla i vari frammenti della trama in una composizione gorgogliante e densa di lacerazioni, striature, crateri e solchi, riversandoli su una superficie in cui il silenzio viene colmato da una ferrea volontà di affermare il proprio essere, servendosi di monocromie e bicromie per raggiungere una completezza imperfetta.
Un linguaggio che si serve degli estremi, degli opposti, dei contrari per arrivare ad un disequilibrio formale in cui sorge il disappunto per la friabile risolutezza dell’uomo.
Un rapporto figura-sfondo ambiguo, ermetico, che spesso rende il primo subordinato al secondo in un continuo gioco di forze e di potere.
Tutte le emozioni elaborate nel momento della realizzazione vengono rigurgitate sul supporto nella maniera più acida, più concentrata, più viscerale, con il tentativo di trovare uno stadio di vaga serenità nel caos di un sentire intuitivo.

Nelle sue opere vi è un ricomporre, strato dopo strato, di un’impalcatura crono storica in cui il rosso, il nero e il bianco fondono fino a diventare un liquido che si estende per tutto lo spazio possibile, contrastato soltanto dagli elementi che bloccano il suo spontaneo diffondersi.
In questo ciclo di lavori, Nadia De Giorgio ha esplorato le profondità oscure dell'animo umano, trasformando le angosce e le ferite del "non detto" in una visione tangibile sulla tela.
Il colore invade lo spazio, trasformandosi in un grido di frustrazione e disperazione, in una denuncia silenziosa di un dolore bramoso di essere rivelato.
Strato dopo strato, l'autrice scopre il bianco accecante, che emerge dallo stalattitico manto nero, come un’ode alla sofferenza, causata da un immorale e preistorico esperimento sociale in cui l'individuale sopravvivenza diventa una lama invisibile, impugnata da un carnefice posto in un piano astrale differente.
Le tonalità simboliche si intrecciano, si mescolano e si confondono in un intricato sottobosco narrativo, che svela un’infetta ferita sociale, mettendo in luce i suoi meccanismi più insensati: il vuoto chiacchiericcio, la maldicenza e l’occultamento dei misfatti per non contravvenire alla legge del silenzio, alla legge dell'autoconservazione e alla legge della sopravvivenza.
Anthony Francesco Bentivegna
Storico dell’Arte
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