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Immagine del redattoreAnthony Francesco Bentivegna

(cosa resta di un viaggio)

Aggiornamento: 19 mar 2020

Una volta che hai viaggiato, il viaggio non finisce mai, ma si ripete infinite volte negli angoli più silenziosi della mente. La mente non sa separarsi dal viaggio.

Pat Conroy


In genere, per “viaggio” s’intende lo spostamento che si compie da un luogo di partenza a un luogo di arrivo.


Tutti, prima o poi, nella nostra vita abbiamo la necessità di fare nuove esperienze, e qual è il modo migliore se non quello di concederci un viaggio? Non importa se sia breve o lungo! Si parte con un bagaglio, ma si ritorna con due! Il primo, si sa, è un bagaglio materiale, tangibile (abiti, gadget elettronici, ecc…), ma il secondo non è meno importante del primo! Se al ritorno del nostro viaggio c’è la necessità di disfare il primo bagaglio, non è possibile disfare il secondo. 


Perché? Perché è quello dei ricordi, che rimarrà depositato nei meandri nascosti della nostra mente, anche se anno dopo anno diventeranno sempre più sbiaditi, offuscati, confusi e frammentari.


Ma non necessariamente il termine “viaggio” deve essere inteso come lo spostamento di un corpo nello spazio, infatti, anche l’artista nel corso della sua ricerca intraprende un “viaggio” stilistico, spirituale e tecnico, non solo in ascesa, ma anche in discesa. In questa continua sperimentazione indaga sui vari elementi della grammatica pittorica: forma e colore.

Roberto Masullo, Poggioreale, 2018, tecnica mista su carta, 50x70 cm.

Nella serie “Appunti di viaggio”, Roberto Masullo si concentra su uno studio ossessivo della forma, proponendo delle abitazioni essenziali, scarnificate da infrastrutture, ridotte in segni elementari: linee simili a quelle realizzate dai bambini quando viene chiesto di disegnare una casa. Ma in tanta semplicità emerge anche tanta concretezza: un quadrato, un triangolo, un semicerchio.


L’artista riesce abilmente a far convivere la corporeità pittorica con un segno grafico riconducibile al mondo del fumetto, del graffitismo e della grafica, imbrigliando spesso il fare pittorico con quello grafico e pubblicitario.

Roberto Masullo, Effetto domino, 2018, fusaggine su rosaspina, 50x70 cm.

Esaminando questa fase della sua produzione emergono due aspetti: “scenari” e “solidi irregolari”.


Tra gli “scenari”, oltre a lineamenti di architettura islamica (decorazione, fregi, moschee), si riconoscono i caratteristici paesaggi di Sciacca e in particolare il quartiere dei marinai visto dal mare, la cupola del Carmine e le abitazioni che si sviluppano in ascesa.


Mentre nella forma dei “solidi irregolari”, oltre all’ascendenza del tipico assetto decorativo della maiolica di Vietri, si individua anche l’utilizzo strutturale di parole, frasi, ritagli di giornale, che diventano parte integrante dell’apparato architettonico di questo suo mondo ideale.

Roberto Masullo, Vietri, case e cupole, 2018, tecnica mista su carta, 50x70 cm

Questi due aspetti si fondono nella composizione (scenari + solidi irregolari), analogamente alla pittura murale del Castello Incantato, in cui Filippo Bentivegna realizza un’ipotetica visione di Sciacca e New York fuse insieme per formare il suo personale mondo utopico.

Roberto Masullo, Costiera Amalfitana, 2018, fusaggine su rosaspina, 70x50 cm.

Ma se nel caso dell’outsider (attivo più di cinquant’anni fa) si parla di memoria eidetica, in Masullo è più corretto parlare di “selezione”. Infatti, seleziona il meglio di ogni tappa del suo viaggio, e il risultato che ne esce è un paesaggio, marino quanto urbano, religioso quanto agnostico, rurale quanto metropolitano: un mondo utopico in cui si distruggono le barriere religiose, ideologiche e politiche: la sua città ideale.

In queste infrastrutture formali, oltre alla referenzialità del paesaggio, si scorge un significato più profondo.

Roberto Masullo, Paese difficile, 2018, tecnica mista su carta, 35x50 cm.

All’interno dei solidi architettonici emergono: colorazioni leziose e accese, segni grafici, carte colorate e smalti. Andando ancora più a fondo all’epidermide pittorica si nota la presenza velata di fogli di giornale o di semplici frasi che svelano la volontà divulgativa dell’autore. Strato dopo strato, scavando nella superfice cromatica, con un’attenta contemplazione si arriva al messaggio nella sua interezza (Culture, VIAGGIATE, PROTEGGI, Paese difficile), dove emerge il suo significato espressivo (più criptico di quello fattuale, perché non percepibile per identificazione, ma per empatia).

Roberto Masullo, How to spend culture, 2018, tecnica mista su carta, 35x50 cm.

Elemento principe della personale iconografia di Roberto Masullo è Melqart: un personaggio, eroe mascherato e alter ego dell’artista, che troviamo, a volte, nascosto tra i meandri di un paesaggio, o apparire spudoratamente in citazioni della cultura Pop o nelle opere di Andy Warhol, Keith Haring e Piero Manzoni.


Si insinua all’interno della pubblicità, degli slogan, dei manifesti dei media, nei dipinti celebri, per sabotarli intellettualmente, riuscendo a trasformare e alterare il loro significato e acquisire un ulteriore contenuto. Come nel Culture Jamming, l’artista veicola il messaggio attraverso il brand, la tag e l’elemento di riconoscibilità referenziale.


Quello di Masullo è un impegno politico, educativo, salvifico e riflessivo: fare dell’arte uno strumento di propaganda, una campagna elettorale a favore degli ormai valori vacillanti della cultura. Ma l’uomo è debole se paragonato ad un simbolo, ad un vessillo, ad un vigilante mascherato: anche se è consapevole del marasma postmoderno, lo combatte con le stesse armi! E da questa città in fiamme nasce Melqart: una griffe, una firma con una missione ben precisa: salvare la sua Gotham attraverso l’arte.


Continuando a lottare, un giorno riuscirà a vedere il sorgere di una nuova città, una città ideale come quella rappresentata nei suoi “Appunti di viaggio”?

To be continued…


Anthony Francesco Bentivegna



L’abbiamo catturato! Intervista a Roberto Masullo

Era da tempo che volevo acciuffare questo sabotatore di quadri e… finalmente ci sono riuscito!!

Sei stato sfortunato stanotte, mio caro! Ti ho colto sul fatto e non potevi far nulla per sfuggire ai miei agenti.


A bordo della volante non hai fiatato, riuscivo persino a sentire il tuo respiro bloccato dalla maschera fenicia che indossavi.

Neanche quando sei arrivato in centrale hai aperto bocca!


Ti abbiamo smascherato e schedato, adesso conosciamo il tuo nome.


Ma voglio sapere ancora tanto altro… dopo mesi di caccia e finalmente stanotte avrò modo di interrogarti per sapere cos’è questo famigerato progetto chiamato “Round Trip”.


Adesso sei mio!


Una sala spoglia con una sedia, un tavolo, una lampadina e una finestra ben chiusa: tutto quello che mi occorre per interrogarti…

A.F.B.: «Roberto, trovi che la tua pittura abbia sviluppato dei lineamenti di riconoscibilità?».


R.M: «Credo di si, ritengo che il mio modo di lavorare sia abbastanza riconoscibile, sia per l’aspetto grafico, che per i temi affrontati. Sono convinto che uno spettatore sarebbe in grado di riconoscere una continuità nei miei lavori».


A.F.B.: «E secondo te, questo è un pro o un contro?».


R.M: «La riconoscibilità per me è un fattore positivo. Riconoscere e identificare un determinato autore dalle sue opere crea un filo conduttore tra osservatore e la personale ricerca dell’artista. Penso che l’essere ricordato nella storia sia un desiderio insito in ogni essere umano.  Riconoscere un’opera crea un legame affettivo tra essa e il fruitore. La riconoscibilità crea una continuità, ma il mio obiettivo primario è far si che le mie opere inducano l’osservatore a una riflessione».


A.F.B.: «Certo… Gli artisti moderni e contemporanei hanno puntato a sviluppare un personale linguaggio al fine di essere riconosciuti, infatti, si riconosce abbastanza facilmente un’opera di Caravaggio, Picasso o Haring. In questo momento, che consideriamo “periodo giovanile” della tua carriera, come stai risolvendo i due elementi della grammatica pittorica: forma e colore?».


R.M: «Ho un rapporto particolare col colore, di “odi et amo”, sia per alcuni motivi "biologici" che etici, e dipende, anche, da cosa sto trattando. Ritengo che la fotografia in bianco e nero sia più espressiva di quella a colori, perché permette di focalizzare maggiormente il soggetto, senza farsi distrarre dal colore, che potrebbe far passare un messaggio puramente decorativo, deviando quindi il reale fine. Nella pittura e nella grafica amo la casualità del colore, le campiture larghe, sbavate, la pittura diretta dal tubetto (un po’ come faceva il gruppo Co.Br.A.) e l’uso del marker per graffito. Ma è nella ceramica che mi sento più libero di usarlo: la volontà collabora con il caso (in questo caso con la chimica), e a fine cottura vengo ricompensato dalle reazioni dei colori tra loro. Dopo un anno di totale allontanamento dal colore in tutte le tecniche, ho conosciuto la bellezza del bianco e del nero. Solo di recente ho ricominciato, con parsimonia, ad usare il colore nei miei lavori. Colore che stavolta non deriva dai tubetti, ma direttamente dalle carte colorate. Mi piace molto questo lavoro di “raccattare” e comprare carte colorate, quotidiani e manifesti; mi dà uno stimolo maggiore, poiché ogni lavoro è influenzato dalle cromie, dai titoli e dai temi presenti sui quotidiani.

Concepisco la forma come sintesi: nel mio periodo accademico ho lavorato sul ritratto e l'ho trovato fondamentale per allenare gli occhi e l'attenzione, da bravo osservatore. Adesso mi interessa la sintesi, riassumere quello che voglio dire, sia con le parole che con i segni. Trovo che al giorno d’oggi la sintesi sia fondamentale, perché la soglia di attenzione dell’uomo medio è molto bassa e bisogna essere brevi e saper colpire nel segno! ».


A.F.B.: «Effettivamente vedo che ti sei sbizzarrito nella sintesi formale di Melqart! Per quanto riguarda la tua produzione, trovi affinità con una qualche filosofia o orientamento artistico?».


R.M: «Ritengo di essere affine a quegli artisti o a quelle espressioni artistiche che analizzano la società traendo delle conclusioni (che siano positive o negative) e a chi usa l'arte per fare un'analisi sociologica. Trovo che la Street Art storica (Anni Settanta) e quella odierna faccia uso di un’espressività artistica che va oltre il semplice bello estetico,  anzi, lascia quel retrogusto amarognolo che si trova nei migliori film, che divertendo o commuovendo, fanno riflettere, scatenando un esame di coscienza».


A.F.B.: «Anche il Dadaismo, il New Dada e la Culture Jamming puntano alla provocazione e alla sensibilizzazione sociale. Quello che noto è che molti “Street-artist” ricalchino continuamente i passi dei loro “padri fondatori”. Non vedo niente di nuovo a livello linguistico, ma sanno bene come fare politica e sensibilizzazione culturale. Secondo te, la Street Art è più una gabbia stilistica o un’occasione per l’arte del nostro tempo?».


R.M: «La Street Art ha sempre avuto un potere social: è l'arte di strada che si è fatta da sola, legalmente e non, e che oggi può vantare una grande vittoria, ossia, quella di essere richiesta dalle amministrazioni lungimiranti, che riconoscono di poter "sfruttare" l'eco mediatico che offre un graffito, organizzando tour guidati o app dedicate, ma allo stesso tempo permette all'artista di avere un social reale dove postare fisicamente un proprio lavoro, eliminando la freddezza di un display. Quindi, secondo me è un’occasione. Eccome, se lo è!».


A.F.B.: «Certo. È molto social! Ma come ti dicevo, si rifà a schemi già brevettati. Ma non è solo il problema della Street Art: tutta l’arte in generale sta attraversando un periodo di depressione. Oggi stiamo rivivendo un secondo manierismo. E mi chiedo come un artista del tuo genere, con le tue potenzialità, può sfuggire a questa gabbia stilistica  continuando a fare “politica nell’arte” come stai già facendo?».


R.M.: «Credo che la strada da percorrere sia fortemente influenzata dal modo di pensare che hanno gli artisti, ma anche dal modo di recepire i messaggi da parte degli osservatori. Le priorità della società mutano con il succedersi delle epoche. L'epoca che stiamo vivendo, senza voler condannare nessuno, mi sembra caratterizzata da una volontà di apparire, di esprimersi, anche in assenza di argomentazioni interessanti. Forse cominciando a pensare seriamente ai bisogni artistici di cui la società necessita (parlo di tutte le arti, non solo quelle visive), si potrebbe superare questo step di apparente mancanza di idee. Guardare al passato per fare meglio oggi lo trovo un procedimento giusto e funzionale».


A.F.B.: «Grazie per averci esposto il tuo pensiero. Adesso parlaci di Round Trip. Che cos’è? Cosa bolle in pentola?».


R.M.: «Melqart, in questo viaggio iniziato diversi anni fa, ha visto molte cose: paesaggi naturali ed urbani, paesaggi dai colori caldi, e paesaggi senza colore. Non sono mai stato un amante della rappresentazione reale del paesaggio, mi piace piuttosto sintetizzarlo e trovare la caratteristica fondante di ognuno di essi. Probabilmente ciò è dovuto alla mia passione per l'architettura in genere, ma forse, anche perché davanti ad un paesaggio urbano come il nostro, quello che mi sorprende è la collocazione delle case, come le tessere del domino, incastrate come un muro di mattoni, e mi affascina anche l'accostamento dei colori dei prospetti, che uniti ai colori del paesaggio naturale brillano di luce propria, il tutto contornato dalla presenza religiosa costante della notevole quantità di chiese ed icone votive. “Round trip”, vuol dire “andata e ritorno”. Per uno come me, che per lavoro è costretto a vivere fuori dalla propria terra, l'andata è una parte importante, perché credo che non esista nulla di più artisticamente stimolante del viaggiare. Le nostre culture sono storicamente basate sulla multietnicità e sullo scambio di usi e costumi, senza l'andata si resterebbe nel proprio studio a produrre, pensando di aver visto tutto (errore che ho fatto i primi anni di ricerca). Il ritorno è altrettanto importante, per non dire fondamentale: è la chiusura del cerchio, la certezza di qualcosa, il punto in cui comincia l'elaborazione e la rappresentazione delle immagini e delle sensazioni immagazzinate. Forse il ritorno è anche una speranza».


L’intervista prosegue bene, ma ancora non sono pienamente soddisfatto! Voglio continuare, ma Roberto Masullo, affaticato, mi chiede un bicchiere d’acqua.


Prima di uscire fuori dalla stanza dell’interrogatorio lo fisso intensamente, come se volessi analizzarlo.

Lui contraccambia con uno sguardo di eguale intensità.


Raggiungo il distributore per prendergli una bottiglietta d’acqua. Durante il tragitto penso alle prossime domande a cui sottoporlo.


Apro la porta e con mio stupore sulla sedia non c’è più nessuno! La finestra è spalancata e sul tavolo trovo un foglietto di block notes con raffigurato un paesaggio e il suo indelebile marchio.

Mi è scappato!...Maledizione!!!


Video intervista:

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