Le libertà di pensiero e di parola sono considerate il principio basilare su cui si fondano uno Stato e una società democratica moderna. L’acquisizione di questi diritti è il frutto di lotte che nell’arco dei secoli hanno visto morire, sotto il proposito di raggiungere ambiti ideali, non pochi spiriti liberali. Un esempio tra i più lampanti di lotta al potere, all’insegna della libertà, fu senza dubbio la Rivoluzione Francese (1789-1799). Il termine “libertà di parola”, potrebbe essere benissimo considerato sinonimo di “libertà di espressione”, e ciò includerebbe anche tutti i vari medium di cui l’uomo si è sempre servito per comunicare, come la scrittura (con la libertà di stampa) e l’Arte.
Nel mondo dell’arte è sempre esistita una strana dicotomia: se da un lato il linguaggio figurato è stato uno storico contendente di quello verbale, quale mezzo portatore di messaggi; dall’altro, “la critica” e le Accademie hanno via via condizionato il giudizio estetico e il gusto, frapponendo un solido muro tra una cosa bella e una sgradevole.
Agli inizi del Novecento le cose cominciano a cambiare. Si assiste ad un radicale cambiamento, come un’onda anomala che spazza via secoli di accademismi e di convenzioni. Come può essere spiegata questa svolta? Diverse sono state le istanze che hanno causato la grande crisi dei valori classici, in quell’epoca di grandi cambiamenti, tra cui l’inadeguatezza dell’arte in relazione ai problemi sociali e spirituali che si stavano prospettando.
Sin dagli albori della civiltà, l’uomo ha sempre sentito il bisogno di esprimersi e per farlo ha dovuto obbligatoriamente scegliere non soltanto “cosa” dire, ma anche “come” dirlo. Di conseguenza, si è adoperato per creare dei parametri linguistici che fossero adeguati, sia ai contenuti da esprimere che ai mezzi peculiari di ogni periodo storico. Comunicare il proprio pensiero, a volte, può spaventare: è una sensazione che spesso si avverte in presenza di persone particolarmente colte che possono mettere in soggezione. Tacere, in questo caso, sarebbe un oltraggio alla libertà di pensiero e di parola? La parola di un medico ha più peso di quella di un contadino? Sembrerà strano, ma anche nel mondo dell’arte esiste questo paradosso. Ma pensandoci bene, che cos’è l’arte se non espressione?
Che cos’è l’arte, se non pensiero tradotto in parole e immagini? Che cos’è l’arte, se non un impulso che va dall’interno verso l’esterno e si propaga attraverso il medium scelto dall’artista? Supportando questa tesi, allora, ogni tipologia di arte potrebbe essere definita “espressione”, facendo così crollare scientificamente la minuziosa suddivisione in correnti e tendenze a cui siamo stati abituati.
La lotta delle Avanguardie contro l’inadeguatezza dell’arte nei confronti dei problemi sociali dell’epoca, aveva generato una tale trasformazione concettuale negli artisti che sarebbe sfociata in una ricerca espressiva al di là della realtà canonica verso forme d’arte emancipate, come l’Astrattismo e le altre tendenze di inizio Novecento.
Già nell’Ottocento, questa inquietudine aveva pervaso l’animo di Paul Gauguin (Parigi 1848 – Hiva Oa 1903). Primogenito di una nuova leva di pionieri, era evaso da una società di cui non si sentiva più appartenente, per cercare una natura incolta, dove l’ingenuità primitiva si fonde con la magia e la troverà tra i miti indigeni della Polinesia, trovando così “il selvaggio”, “il primitivo”.
Durante il Novecento, anche altri artisti cercheranno la purezza altrove e la troveranno in espressioni spontanee: come Pablo Picasso (Malaga 1881 - Mougins, Alpi Marittime, 1973) nella scultura negra [1] [fig. 1]; come Wassily Kandinskij (Mosca 1866 - Neuilly-sur-Seine 1944) con la pittura infantile e come Jean Dubuffet (Le Havre 1901 - Parigi 1985) con i graffiti e la pittura degli alienati. Anche altri artisti più vicini al nostro tempo, come Constantin Brancusi (Peştişani 1876 - Parigi 1957) e Henry Moore (Castleford, Yorkshire, 1898 - Hartford shire, 1986), cercheranno riscontro nelle forme naturali.
L’Arte tra Ottocento e Novecento sarà scossa da molti cambiamenti originati dal fatto che l’arte si era arenata su stilemi dall’apparenza perfetta, ma spiritualmente aridi. La forte critica mossa all’artista e alla società scaturiva dall’inadeguatezza della creazione dell’artista e dall’ignoranza della società oramai lontana dalle problematiche dei nuovi linguaggi dell’arte contemporanea. Già nel Settecento, Jean-Jacques Rousseau (Ginevra 1712 - Ermenonville 1778) evidenziava il rapporto deleterio tra artista e società, introducendo il “Mito del buon selvaggio”, dove sosteneva che l’educazione dell’uomo civilizzato corrompe e allontana dallo stato naturale [2].
È proprio questo il punto: l’Arte aveva perso quella sincera volontà formale che gli indigeni con la loro scultura genuina, senza scuole, accademie e insegnamenti, riuscivano a trasmettere. Il guerriero o sciamano scultore che intaglia un idolo sull’estremità della sua lancia o del suo bastone, avendo come modello nient’altro che il proprio pensiero, riesce ad avvicinarsi molto di più al senso di creazione pura di quanto non faccia un’artista in possesso di specifiche prassi pittoriche che non fanno altro che limitare il suo estro. Questa è di fatto la nuova linea espressiva che si sviluppa all’inizio del Novecento. Esprimersi genuinamente come fa il primitivo, il selvaggio, l’indigeno o anche il pazzo, il pastore, l’eremita o l’alienato dalla società diventa il nuovo ambito creativo da indagare!
Nell’arco del secolo scorso, sono venuti alla luce diversi artisti etichettati dalla critica come “naïf” (traduzione francese di “ingenuo”), ovvero artisti per così dire “spontanei”, uomini senza nessuna preparazione accademica. L’arte naïf, però, va distinta dall’Art Brut (arte grezza).
È considerata “Art brut” l’opera di un alienato che in solitudine sfoga la propria frustrazione o “creatività” in un raptus artistico che lo porta a lasciare un segno sulla materia, sia bidimensionale che tridimensionale. È interessante notare che questi “artisti” non hanno nessuna pretesa di esporre i loro lavori o di diventare famosi: semplicemente si esprimono! Creano per compiacere se stessi, assecondando esclusivamente i loro impulsi più reconditi.
Occorre saper discernere, però, la differenza tra un naïf e un outsider. Il naïf muove la propria produzione, senza fondamenta accademiche, grazie all’ammirazione verso l’arte colta; la produzione dell’outsider, invece, è mossa principalmente dall’ istinto “selvaggio”.
Filippo Bentivegna (Sciacca 1888 – 1967) [fig. 2] dopo essere emigrato in America, tornerà nel paese d’origine e passerà il resto dei suoi giorni a scolpire sulla pietra le migliaia di “Teste” che adornano (ieri più di oggi) il Castello Incantato [fig. 3].
Il noto artista Jean Dubuffet verrà a conoscenza del "giardino delle strane teste" dalla lettera di segnalazione di Gabriele Stocchi. Ne fu così colpito che decise di acquistarle per la sua collezione privata.
Dubuffet ammirava il modo con cui visi e corpi si mescolavano e intrecciavano grazie a un’inventività inesauribile. Tutt’oggi il Castello Incantato rimane uno dei siti più suggestivi di Sciacca, merito proprio di quelle teste emergenti dalla pietra e dalle rocce che creano un’atmosfera tra il romanico e il tribale [fig. 4].
Di fatto, l’assetto compositivo utilizzato dal Bentivegna ricorda molto quello della scultura romanica, in particolare quella catalana, non solo per il repertorio di soggetti in bilico tra favoloso e mostruoso, ma anche per il loro ricorrente accostamento, in grovigli grotteschi, caratterizzati da una peculiare goffaggine rappresentativa.
Tale assonanza, la notiamo prendendo in esame uno dei capitelli figurativi all’interno del priorato di Serrabona (Francia, Pirenei Orientali), del XII secolo [fig. 5].
Allo stesso modo Il linguaggio dei manufatti di Bentivegna è caratterizzato da uno schema compositivo a grappoli: l’artista scolpisce sulla pietra il soggetto che viene ripetuto radialmente. Tale groviglio può essere caratterizzato da teste e demoni o anche da figure particolari che tormentano la mente dell’autore: serpenti, feticci o creature antropomorfe che riprendono le fattezze della donna, ora bicefala ora tricefala. Scolpire la figura femminile, dalla quale era intimamente ossessionato e che esternalizzava in maniera primordiale, era il modo in cui l’artefice del tempo viveva la propria sessualità.
Nella rappresentazione del sesso maschile, invece, non vi leggo espressione di lussuria o di perversione, ma la volontà di mettere a nudo la propria intimità, la propria fragilità, il proprio viscerale essere, cercando di superare la barriera del pudore e della vergogna.
Altre volte invece sviluppa la forma in verticale, seguendo anche la forma del medium, sovrapponendo le teste su vari piani e realizzando sculture dal sapore sciamanico, come dei totem; la texture sulle sculture di piccola dimensione sono frutto, senza dubbio, di una contemplazione conscia. Questi elementi rappresentano un repertorio iconografico inconscio e li ritroviamo anche in altri autori dell’Art Brut, come Adolphe-Julien Fouéré (Sant-Thual 1839 - Rothéneuf 1910) [fig. 6] .
A mio parere la molteplicità delle teste può rimandare ad alcuni frammentari ricordi di Bentivegna risalenti alla sua permanenza in America, e più precisamente ai grandi flussi di persone, che attraversando freneticamente le strade della grande città, gli arrivavano addosso incombenti e senza degnarlo di uno sguardo [fig.7].
Per lui, che proveniva da una piccola città dove tutti si conoscono e per strada si scambiano saluti, quell’indifferenza fu senz’altro fonte di turbamento e di sconcerto, diventando probabilmente l’origine delle sue ossessioni creative. Questi ricordi traumatici affioreranno col tempo. Bentivegna aveva creato attorno a sé il suo mondo ideale, la sua “Sciacca-America”, un posto dove le folle frenetiche e indifferenti che lo avevano tanto suggestionato, si sarebbero fuse con l’esigenza di calore umano così essenziale del folklore dei piccoli centri. Una sorta di horror vacui[3] sia affettivo che fisico (a cui l’artista voleva sottrarsi) da colmare insaziabilmente.
La grande varietà delle teste scolpite anche nei tronchi degli ulivi e dei mandorli, generava in lui un’affascinante commistione sia suggestiva che inquietante. Questa intersezione dimensionale tra l’America e Sciacca, è particolarmente visibile nell’unica pittura murale del Castello Incantato, all’interno di un minuscolo fabbricato che veniva usato dall’artista come ripostiglio per suoi lavori più intimi e privati. L’opera rappresenta Sciacca vista dal mare, ma con una particolarità che salta subito all’occhio, ovvero la presenza di svettanti grattacieli in sostituzione delle piccole case: una fusione creativa tra la piccola città marinara e la grande metropoli industrializzata [fig. 8].
La critica, in riferimento alla produzione artistica di Filippo Bentivegna è molto dibattuta, e ruota sulla conferma dei suoi concittadini e sulla diagnosi psichiatrica che l’autore soffrisse di qualche malattia mentale che lo spingeva ad esternare il frutto dei suoi incubi e dei suoi pensieri più nascosti.
Che sia stato pazzo o meno, adotterei un’analisi fondata semplicemente sul Kunstwollen[4] (volontà artistica), che porta il nostro argomento d’indagine, non tanto sull’alienazione del soggetto o sulla sua ossessione morbosa per il sesso femminile, quanto sul suo naturale impulso a creare, perciò propongo una chiave di lettura più razionale e consapevole. Spesso il termine “impulso”, nell’arte, viene identificato con un’azione selvaggia e inconscia, scaturita da esperienze creative non governate dalla ragione (come accade nell’Espressionismo e nella stessa Art Brut); ma la parola “impulso” non deve evocare necessariamente l’immagine di un folle o di un degenerato:
“[…] Quando il carattere “impulsivo” si riferisce a un artista, il significato si ribalta e assume una connotazione positiva. L’artista non può essere logico, o così almeno se lo immagina la gente. Deve fare qualcosa cui gli altri non pensano lontanamente; deve mostrarsi in qualcosa che supera l’immaginazione dell’uomo comune, e gli fa mormorare: che idea bizzarra! Un artista che agisce senza un impulso, cioè senza il suo lato impulsivo, per la società non sarà mai un artista […]”[5].
Bentivegna viveva in solitudine e dubito che avesse accesso a mezzi d’informazione come libri, radio e televisione; il suo unico sfogo per superare le lunghe giornate da eremita era quello di creare. Così ingegnandosi con arnesi rudimentali, canalizzava la sua volontà artistica e il suo impulso creativo su un elemento che non rischiava mai di mancare: la pietra. Questa prassi, secondo me, fu all’origine di quella sorta di pratica apotropaica che generò le sue opere.
Non è neanche escluso che questa “urgenza interiore, insopprimibile e intensa”, non sia dettata da pura casualità. E’ anche presumibile che la memoria eidetica giocò molto sulla produzione di Bentivegna: i ricordi di quando era in America, che riaffioravano come la pellicola di un film; i ricordi da bambino, dei personaggi misteriosi delle leggende popolari, che i vecchi di un tempo amavano raccontare ai nipoti; la sua inarrestabile fantasia: tutto ciò aveva sedimentato in lui una certa galleria di immagini che all’occorrenza emergeva nella sua produzione. Sarebbe interessante avere la certezza se la sua mano procedeva per imitazione dell’idea, che a sua volta veniva nutrita da immagini (tramite la memoria eidetica), o per associazione formale: testa con grandi baffi = Vittorio Emanuele; testa barbuta = Garibaldi [fig.9].
Le teste di Bentivegna trovano riscontro negli enormi testoni Moais che si trovano nell’isola di Pasqua [fig.10], busti antropomorfi in pietra sovrastanti monumenti sepolcrali; si tratta di statue monolitiche di tufo vulcanico alte da 2,5 metri fino a 10 metri. E’ possibile che Bentivegna abbia scorto, anche di sfuggita, in qualche foglio di giornale, i Testoni Moais?
Il rapporto empatico che il Bentivegna instaurò con la materia, toccò la massima espressione nella realizzazione delle grotte e dei cunicoli. Questa attività, come quella di scolpire, era per certi versi un’ingenua pratica rituale, che lo portava (come lui diceva) a “ricongiungersi con la Madre Terra”. Tale pratica, certamente, mette in dubbio l’idea di un Bentivegna instabile e inconsapevole e lo avvicina sempre di più a una dimensione spirituale, romantica e poetica del fare artistico. Infatti, dopo aver esaurito i massi all’interno del suo terreno, lo scultore saccense intraprese un’attività febbrile, anzi, maniacale di scavo, che lo portò ad estrarre la pietra dalle profondità della sua “Madre Terra”, per dare vita, alle sue famose teste.
L’intera attività di escavazione, così come lo stesso sito, sono da considerarsi una vera e propria opera d’arte ambientale, perché hanno provocato un radicale mutamento del territorio circostante. L’azione scultorea sui blocchi di pietra, probabilmente, non bastò a placare la sua smania creatrice, ma venne in seguito dirottata all’impresa delle grotte, fecondando, in questo modo, quell’ambiente intimamente vissuto. Entrando in uno dei cunicoli, proprio all’ingresso, notiamo poche teste a basso rilievo [fig.11].
Bentivegna lasciò incompiuta l’impresa appena iniziata: le poche teste realizzate sarebbero state le prime di una serie che avrebbe popolato in massa l’intera grotta. Non riuscì a compiere, quella che forse sarebbe stata la sua "Magnus Opus", il punto d’arrivo di tutta la sua produzione artistica, che è crocevia tra scultura ed escavazione. Bentivegna vedeva in quelle caverne il proprio sancta sanctorum, un luogo deputato solo ed esclusivamente a se stesso, un luogo dove si sentiva protetto e isolato dal mondo che gli era ostile. La caverna non era solo una soglia che lo congiungeva alla Madre Terra, ma la sua degna amante. Un luogo dove si sentiva abbracciato e compreso. Lui stesso evidenziava questo tipo di legame, quasi fosse un rapporto sessuale:
“…io scavo queste caverne e penetro nella terra... io la possiedo... ne traggo forza ed energia…”[6].
Da queste parole è ipotizzabile dedurne, che come in un amplesso egli fecondava l’amante da cui avrebbe tratto fuori le sue creature e
“… per questo qui sono tutti vivi... io li ho fatti rinascere...>”[7].
Filippo Bentivegna trae fuori i figli che lui stesso ha concepito dalle viscere della loro madre; una sorta di emersione dalla materia che lo porta, come Giuseppe Penone (Garessio 1947) esponente dell’Arte Povera, a togliere il superfluo per celare ciò che occulta la scorza.
Come ogni animo artistico, Bentivegna non vantò in vita una fortuna critica adeguata alla sua creatività, anzi, fu proprio questa a generare il topos[8] della sua pazzia. Una decisa inversione di rotta avvenne dopo la sua morte, grazie a un’inedita apertura mentale dei suoi conterranei e soprattutto al tardivo recepimento delle ultime tendenze moderne come l’Espressionismo e l’Informale. Attualmente, alcune sue opere sono custodite nel Musée de l’Art Brut di Losanna (Svizzera).
Un errore comune alla critica d’arte è quello della creazione di diversi tòpoi che rimangono marchiati a fuoco sull’artista e che influenzano la fruizione della sua opera, rendendola corrotta e offuscata da preconcetti, falsandola, sia nell’intenzione comunicativa che in quella concettuale. È anche vero che determinate circostanze nel corso della vita portano un’artista a una determinata scelta di soggetti e contenuti (come nel caso delle teste in relazione alle moltitudini), ma il primo approccio dovrebbe essere puro, indipendentemente dallo stato mentale di un’artista o dalle sue inclinazioni sessuali.
Questa mia valutazione trova riscontro nel metodo analitico di Eugenio Corradi. Nel suo saggio intitolato La dinamica dell’arte oltre il moderno, l’autore crea una separazione tra la sfera personale e quella produttiva di un’artista:
[…] Naturalmente quello che a noi interessa è la qualità dell’opera che si identifica in un impulso, la sua qualità impulsiva e non tanto l’atteggiamento personale dell’artista nella vita, cui badiamo poco. Qui sono veramente affari suoi e di quelli che lo hanno accanto […]“[”[9].
“… “Ne vendete molte di sculture?”
"Vendere? Nossignore, le faccio per me.”
"Si dice che molti sarebbero disposti a pagarvele bene..."
"Io non le vendo. Non hanno prezzo. Le faccio per me" …
… "Ma perché le fate?"
"Perché sento di doverle fare .…”[10]
Nel “Signore delle teste” c’era un certo istinto ancestrale, quasi ignoto e una certa lucidità esecutiva che lo spingeva alla scultura (a prescindere dalla rudezza della tecnica utilizzata). Filippo Bentivegna sa di scolpire, probabilmente non ne percepisce la causa, ma ne ha piena consapevolezza.
Lui stesso non si sentiva un artista, non pretendeva che le sue opere valessero milioni; l’obiettivo delle sue lunghe giornate sotto il sole, a percuotere la pietra con lo scalpello, era uno solo: esprimersi. Era in questo atto che si trovava il vero spirito, il vero temperamento, il vero sentimento di Filippo Bentivegna.
Avrebbe dovuto smettere, visto che ai suoi tempi era considerato tutto, eccetto un artista? Naïf o outsider, non bisogna liquidare il peculiare mondo di un artista con la pazzia o la sregolatezza, perché chiunque – il pastore, il contadino, l’alienato – ha diritto di esprimere se stesso, facendo fede a quei principi democratici su cui è basata la nostra società.
Anthony Francesco Bentivegna
NOTE
[1] Scultura negra: termine utilizzato dalla critica d'arte per definire e classificare tutti gli esemplari scultorei realizzati manualmente da membri di società autoctone africane. La definizione non ha nessun accezione antisemita o razzista. Cfr. G. C. Argan, L’Arte moderna 1770-1970, Sansoni, Firenze, 1979; J. Dubuffet, I valori selvaggi. Prospectus e altri scritti, Feltrinelli, 1971.
[2] P. Nerhot, J. J. Rousseau, Discorso sull'origine e i fondamenti della disuguaglianza tra gli uomini, Giappichelli, 2015.
[3] Orrore del vuoto. In pittura è la tendenza ad eliminare ogni spazio vuoto, grazie ad espedienti come l’ornamento. Tale tendenza diventa una prerogativa del Barocco e del Rococò. Vedi Treccani Enciclopedia on line http://www.treccani.it/vocabolario/horror-vacui/
[4] Kunstwollen (Volontà artistica). Termine e concetto introdotti nella critica d’arte dallo storico tedesco A. Riegl. Considerando l’opera d’arte come il risultato di una determinata e consapevole volontà artistica che emerge dalla tecnica e dalle tecniche applicate dall’artista. Il Kunstwollen rispecchia caratteristiche dell’epoca in cui è nata, per cui, da un’idea di sviluppo dell’opera in chiave teologica, si passa ad un atto meccanico e spontaneo. Vedi G.C. Sciolla, La critica d’arte del Novecento, UTET 1995, pp 14,16,19; Treccani enciclopedie on line, “Kunstwollen”, in Treccani.it, 2017, http://www.treccani.it/enciclopedia/kunstwollen/
[5] E. Corradi, La dinamica dell’arte oltre il moderno, Amando Editore, 2015, p. 87.
[6] G. Rizzo Nervo, L’Eccellenza di Filippo Bentivegna, Luigi Pellegrini Editore, Cosenza 1996, p. 14.
[7] Ibidem.
[8] Tòpos. Luogo comune, ricorrente in un’opera, nella tematica di un autore o di un’epoca. Leggenda che riguarda la sfera personale o professionale di un autore. Per maggiori informazioni vedi Treccani enciclopedie on line http://www.treccani.it/vocabolario/topos/
[9] Cfr. E. Corradi, op. cit, p.87.
[10] A. Lentini, "Il signore delle teste e gli specchi di pietra", in G. Ingarao, Ritratti d’artista. Filippo Bentivegna, CLAC, Palermo 2007, p. 18.
Pubblicato in: "Il Fatto Popolare - settimanale di fatti locali e nazionali", Numero 261 del 02/03/2018 Anno VII - 2018, pp. 12-14; "Il Fatto Popolare - settimanale di fatti locali e nazionali", Numero 263 del 16/03/2018 Anno VII - 2018, pp. 9-11; Ars Mundi. Origine |Tradizione |Evoluzione, in Tinkit-magazine.com 05/12/2019;
Vedi anche: Presentazione del libro Filippo Bentivegna. Mito e Fantasia di un artista "regolare" di C. Cirafisi, Melqart Communication, Sciacca 2017, Castello Incantato, RMK, Sciacca (AG); La splendida "follia" di Filippo Bentivegna in un libro dello psichiatra e neurologo Calogero Cirafisi, in Risoluto.it
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