Il 6 aprile di quest’anno ricorre il cinquecentesimo anniversario della morte di una delle figure più iconiche della pittura ed europea: Raffaello Sanzio (Urbino, 1483 – Roma 1520). Raffaello, figlio di Giovanni Santi (anche lui pittore), si forma nella bottega di Pietro Perugino, ereditandone la prepotente e razionale spazialità presente nelle sue opere. La vita di Raffaello non è affatto longeva, muore giovane, a trentasette anni, producendo una quantità notevole di opere che ci spingono spontaneamente a pensare quanto ancora avrebbe potuto realizzare… Giovane e già esperto nell’arte della pittura, dopo le prime committenze visita Firenze, culla del Rinascimento, dove conosce e vede da vicino l’operato di Leonardo da Vinci, altro personaggio di cui ne assimila le peculiarità. La prima parte della sua carriera è segnata prevalentemente dalla realizzazione di Madonne col Bambino, in cui emerge e viene evidenziato il suo principale Kunstwollen (volontà artista): la rappresentazione di una bellezza ideale e celestiale. Una bellezza superiore al mondo terreno di matrice platonica, da ricercare proprio nel mondo terreno, attraverso l’imitazione della natura. Una manifestazione dell’uomo o della donna fatta ad immagine e somiglianza di Dio, ai quali con la cacciata dal paradiso terrestre viene sottratta quell’aurea sacrale, ieratica, divina che li avrebbe reso uguali a lui.
Ecco, Raffaello ridona ai suoi soggetti quell’elemento tangibile e intangibile mancante! E non lo fa soltanto nei soggetti, ma anche nei volumi geometrici: proprio come ricerca un equilibrio perfetto nei parametri fisionomici di un individuo, anche le sue architetture sono frutto di un preciso calcolo matematico (e qui è molto vicino a Piero della Francesca). Raffaello prende tutto il meglio che la sua generazione possa offrirgli: dal colorito veneziano alla pittura umbra, dal misterioso paesaggio leonardesco al culturismo michelangiolesco, per creare quell’archetipo, quell’ideale di perfezione. Raffaello sopravvive nei secoli e diventa punto di riferimento per autori neoclassici, diventando, così, l’esempio più vicino e ben riuscito dell’estetica iperurania greca. Il trasferimento nel 1508 a Roma, voluto da Papa Giulio II, per affrescare le stanze vaticane, non rappresenta solo una grande occasione, ma gli consente anche un salto di qualità, merito della contemplazione della statuaria classica e dell’operato di Michelangelo (che in quel momento stava affrescando la Cappella Sistina), sua naturale nemesi sul piano sociale: Raffaello era un uomo di mondo, un grande amante, un imprenditore (il numero elevato di commissioni in tutto il mondo gli imponeva di avere una grande bottega), un uomo cordiale e a modo, che aveva a che fare con la crema della società dell’epoca. Nelle sue opere egli riporta gli usi e i costumi virtuosi di quei circoli formati da belle donne (perfette modelle) ma anche di poeti e filosofi (ottimi spunti di riflessione).
Oltre che eclettico era un tipo abbastanza diplomatico. E da buon uomo di società non azzardava schieramenti ideologici, basti pensare che nella Scuola di Atene non si trova una singola verità, una singola intellighenzia, ma il fior fiore delle culture e dei saperi partoriti nel mondo fino ai suoi giorni: così la cultura platonica si incontra con quella epicurea, l’escatologia occidentale con quella orientale e via dicendo, merito anche dell’equipe di filosofi e teologi che lo affiancavano nelle scelte semantiche dei dipinti delle stanze vaticane. La permanenza in Roma fino alla sua morte lo porta ad essere nominato da Papa Leone X Architetto di San Pietro (1514) e Presidente delle Antichità Romane (1515), una specie di Soprintendente ai Beni Culturali. Tornando alla sua estetica, molto raramente l’urbinate si discosta dalla sua personale ricerca di bellezza superiore per concentrarsi su aspetti molto più umani, come ad esempio: l’introspezione. In Autoritratto con un amico egli esclude qualsiasi tipo di virtuosismo coloristico e pittoresco per concentrarsi sull’intimità di una stanza illuminata da una luce fioca in cui intercala sé stesso e un suo seguace (con molta probabilità Giulio Romano).
È una delle opere più emblematiche e più personali in cui non rappresenta l’ideale ma il reale (anticipando Caravaggio). Presagendo forse la morte, si mostra col viso emaciato, gli occhi pesanti e la barba lunga mentre appoggia la mano sulla spalla dell’allievo, quasi come cedere il testimone (un testimone della realtà, della concretezza, tanto simile fisionomicamente all’Aristotele della Scuola di Atene). Fa molto riflettere la somiglianza tra l’Aristotele delle Stanze Vaticane e questo presunto “amico”.
Una somiglianza molto evidente che va dalla posizione del corpo col braccio destro proteso in avanti, alla posizione del viso in un profondo tre quarti che mostra l’elegante linea del collo. E se invece di una persona fisica sia proprio la personificazione della realtà? Quindi lui, pittore dell’intangibile, lascia il posto alla tangibilità intesa come ricerca della natura, precludendone un archetipo esclusivamente sacrale. Avvertendo la necessità di concretezza umana, Raffaello “scende dal paradiso” dove ritrae santi e divinità, “torna sulla terra” per immortalare non più l’ideale ma il reale, una filosofia che diventerà il credo principale di Michelangelo Merisi. Anthony Francesco Bentivegna
Pubblicato in: Tinkit-magazine.com 09/04/2020
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