Mare e cielo. Acqua e aria. Due regni che hanno come punto di connessione l’orizzonte. Pittura e poesia. Discipline diverse che si intersecano nel puro operato artistico.
In questo episodio di Ars Mundi. Origine Tradizione Evoluzione, indagheremo sul rapporto di queste due discipline attraverso la “produzione concettuale” dell’artista Franco Accursio Gulino (Sciacca 1949) [fig. 1].
La pittura e la poesia sono due discipline mentali periferiche scaturite dalla creatività e dalla fantasia.
Considereremo il dipinto come i versi poetici, ossia, l’esternalizzazione di un pensiero o di un’idea. Ma non tutto ciò che è scritto è poesia, come, non tutto ciò che è dipinto è pittura.
L’adattamento del medium diventa un’esigenza necessaria, soprattutto, per chi è dotato di grande ingegno e creatività. Molti degli artisti che conosciamo, come ad esempio Michelangelo Buonarroti (Caprese 1475 – Roma 1564) e Gian Lorenzo Bernini (Napoli 1598 – Roma 1680), oltre ad essere abili scultori, erano anche dei valenti poeti e prosatori.
Ciò che sembra inusuale, invece, è un problema discusso e risolto nell’antica Roma, quando il poeta Orazio (Venosa 65 a.C. – Roma 8 a.C.) con la locuzione latina “Ut pictura poesis”, ovvero, la pittura è una poesia muta, la poesia è una pittura parlante, descrive il rapporto tra queste discipline sorelle. L’obiettivo comune della pittura e della poesia è quello di cimentarsi con la manifestazione di un’idea o di un pensiero. Di conseguenza, esse trovano riscontro nel pensiero platonico che vede come elemento primigenio l’idea.
L’atto del dipingere evoca gli stessi schemi evocativi della poesia e viceversa. Anche se mutano gli elementi che formano l’opera, andiamo incontro allo stesso processo mentale.
La pittura, come la poesia, può avere diversi livelli di difficoltà di comprensione: nei paesaggi mimetici si distinguono nitidamente i limiti e i confini delle cose; nei paesaggi immateriali, invece, gli elementi non sono rapidamente comprensibili, in quanto gli effetti pittorici e formali alterano la riconoscibilità dello scenario.
Una sfida per l’autore, attraverso l’espressione; e una sfida per il fruitore, attraverso la comprensione di tutti gli elementi visibili e invisibili (sia nella pittura che nella poesia).
La produzione di Franco Accursio Gulino è contrassegnata da una continua erraticità stilistica e tematica. Agli albori della sua carriera, parte dal classico, per poi sfociare ad esperienze più contemporanee, come l’Informale. Questa sua attività migratoria, tra uno stile e un altro, si ripercuote anche nella scelta comunicativa che egli adotta. Anche con altre forme di espressione (come ad esempio la scrittura), ciò che preme all’artista è la diffusione del messaggio.
La poesia Pittura, rappresenta, a mio parere, il Manifesto della “produzione concettuale” di quest’artista.
“Se dipingessi per cento volte ciò che più mi piace
brucerei per cento volte sull’altare dell’ipocrisia.
Un cristiano, certo a modo mio, per immagini o di più.
Ciò he contiene il contenitore non lo saprò mai.
Sdraiato sul paradiso ad un passo dall’inferno.
Per cento volte dipingere ciò che più mi piace.
Pittura che non ha mai conosciuto la sua normalità”[1].
Analizzando il contenuto della poesia, è chiaro il disprezzo e la rinuncia alle operazioni artistiche sedimentate in schemi stilistici e tematici. Emerge, invece, il Kunstwollen (volontà artistica), che l’artista ha da sempre seguito: la sperimentazione continua e tormentata.
Nelle prime tre strofe, si impone di non fermarsi a schemi più consoni, seppur graditi. La fossilizzazione verso un continuo schema semantico è vista come un tradimento alla Madre-Arte. Per Gulino, l’arte non è un valore aggiunto, bensì il valore per eccellenza: quello che lo fa oscillare continuamente tra tormento ed estasi, in una disciplina che non è per diletto, bensì vera e propria religione. Mi ricorda un verso di Michelangelo in cui emerge la stessa sacralità verso l’arte:
“… Onde l’affettuosa fantasia che l’arte mi fece idol e monarca…”[2].
In bilico tra il tormento e l’estasi, la sua sperimentazione è caratterizzata da un perenne stato di incontentabilità, seguito da un lieve attimo di piacere provocatogli dall’esecuzione creativa, per poi risfociare nell’incontentabile ricerca dell’assoluto.
Gulino conclude il sonetto con una frase emblematica: “pittura che non ha mai conosciuto la sua normalità”. In questo caso, farebbe riferimento all’atto di cristallizzazione stilistica, che molti autori ambiscono e praticano, caratteristica spesso dettata da termini e manovre di mercato.
Tra la pittura e la scrittura dell’artista troviamo diverse connessioni tecniche e formali. Predilige la rima aperta che non risponde strutturalmente ai vincoli sintattici; tale libertà espressiva viene adoperata anche in pittura (soprattutto nei lavori informali), dove l’idea della forma, senza la completa evocazione di essa, mistifica i soggetti. La conoscenza tecnica gli permette un’esecuzione senza schemi (come l’apparato sintattico nella sua poesia): l’epidermide pittorica risponde a risultati tratti da reazione chimiche di più materie (pastello, olio, tempera, acrilico, terra, sabbia…), che possono liquefarsi, stratificarsi o scindersi.
Nella figurazione, elimina la regolarità dei soggetti attraverso l’anamorfismo o l’accentuazione di tratti fisiognomici (labbra, occhi…) come nel ciclo "Clandestinus" [fig. 2]. Qui, l’elemento semantico “scrittura” è presente con frasi secche e concise, come vignette fumettistiche, che ci suggeriscono il titolo dell’opera, o ci aiutano alla comprensione e ad una maggiore riflessione sull’opera: Ecce Homo, Ecce Clandestinus, Clandestinus Nudo, Clandestinus Saltantem…
Il ciclo che più salda la connessione tra la pittura e la scrittura di Gulino è senza dubbio "Lavagne" [fig. 3]. Dal fondo nero, contaminato dalla presenza di aerei o creature antropomorfe, emerge anche l’elemento “scrittura”, che viene inciso sulla superfice cromatica semi-asciutta del supporto. Tale scrittura, dalla calligrafia gotica, assume valenza semantica come se facesse parte del suo repertorio linguistico (punto, linea, forma). In un raptus gestuale di frasi in corsivo, numeri e segni algoritmici, traccia una scrittura arcana. Una scrittura “astratta”, che perde la sua naturale codificabilità per diventare cripticamente indecifrabile.
Altre volte la scrittura va ricercata in parti minimali e marginali del quadro, ad esempio, come nelle "Porte della memoria" [fig. 4], nei "Tabularium" [fig. 5] o ancora più in "Passano all’asta i sogni" [fig. 6]. In quest’ultimo ciclo, la tela diventa vero e proprio campo di proiezione della sua mente, uno spazio bianco in cui convivono idee, suggestioni, immagini, elementi figurativi (spesso contenenti la “scrittura astratta”) come: aerei, razzi, sfere o il Berliner Goldhut [fig. 7]. Anche frasi ed elementi dattilografici come: pagine di libri e frasi dai più svariati caratteri.
In Franco Accursio Gulino il limite tra pittura e scrittura è labile: queste due discipline convivono amorosamente, prima nella sua mente e poi nella sua produzione. Per comprendere il significato delle sue opere (pittoriche e letterarie), bisogna scavare nella sorgente delle sue proiezioni: la sua mente. Il luogo in cui risiede l’humus della sua creatività.
Anthony Francesco Bentivegna
[1] F.A. Gulino, “Pittura”, P. Nicita, Memoria. Ritratto d’artista, Catalogo della mostra, Edizioni Caracol, Palermo 2015, p.27.
[2] E. N. Girardi, Michelangelo Buonarroti, Rime, Laterza, Bari 1960, p.134.
Pubblicato in: "Il Fatto Popolare - settimanale di fatti locali e nazionali", Numero 2*** del **/**/2018 Anno VII - 2018, pp. ****; Ars Mundi. Origine |Tradizione |Evoluzione, in Tinkit-magazine.com 02/01/2020
Comments