Forzieri di coscienza, sensazioni e sentimenti, chiusi da mani intrise di polvere, fango e cicatrici.
Nomadi di un tempo liquido, rarefatto e invisibile.
Deturpati, calpestati, spogliati della loro materia fisica e spirituale.
Dove sta la dignità dei relitti, degli scarti e dei codici tracciati con sangue e terra?
Schiudi quella scatola di cartone marcio, putrido e malandato. Spalanca quella porta di legno cigolante, fatiscente e rattoppata. Varca la soglia di quella grotta scolpita da ossa spezzate, da carni maciullate e da esistenze mai raccontate, mai ricordate, mai esistite…
Chi siamo noi se non gli indiretti destinatari?
Esploratori di un intimo rifugio di pensieri incisi sulla nuda materia che asseconda la nostra richiesta d’asilo. Tanto disponibile da lasciare la porta socchiusa anche nelle notti più nere. Tanto disponibile da non chiedere nulla se non un barlume di memoria.
Questa linea impercettibile, spesso travisata, tra la dicotomia ospite/ospitante è espressa nel cortometraggio L’Ospite (2007) di Franco Accursio Gulino.
Punto focale della pellicola è l’autorealizzazione dell’artista di essere ospite dell’intrinseco vissuto (concreto e inconcreto) del supporto.
Medesimi umori si allineano con la costante volontà dell’autore di far luce sul tragico destino degli ultimi, degli esclusi, degli sconfitti: i Clandestinus.
La lettera con la busta diventa (per struttura e funzione) uno dei principi iconici ed escatologici di una riflessione dedicata al lungo percorso filologico delle transumanze:
non un’inerme corazza, bensì un nervo scoperto e fragile quanto il suo contenuto;
un individuo dalla precisa identità con un passato alle spalle drammaticamente animato da luci ed ombre;
un ritratto della memoria (eredità culturale incorporea) dipinto sulla memoria (eredità culturale corporea);
uno scrigno di anime sprofondato nei fondali marini, un pesante relitto in crosta di ruggine, un fossile irriconoscibile, un codice indecifrabile;
eterogeneo ecosistema formato da colore viscoso, bianca sabbia e terra natìa.
Una busta chiusa diventa porta: un varco d’accesso verso un mondo in cui storie mai narrate da astratte scritture fluttuano nell’aria e attraversano il nostro corpo. Frasi spezzate, scomposte ed ermetiche leggibili solo se dimentichiamo il calcolo matematico della lettura.
Una busta che, di mano in mano, passa da un mare all’altro come una zattera malridotta, traghettatrice di anime in bilico tra purgatorio ed inferno, in continua ricerca di un paradiso terreno inesistente.
Una busta socchiusa diventa tabularium: un archivio di nomi senza gloria, di uomini dimenticati, di unità mal funzionanti scartate da una società di massa “corretta”, “giusta” e “senza errori”, che distoglie lo sguardo dall’appesantimento della ragione.
Una busta aperta diventa domus: la casa del pensiero, l’abitazione della memoria, l’architettura che custodisce gelosamente quell’esatto momento in cui Franco Accursio Gulino immortala lo spirito di un universo immaginativo composto da messaggi atemporali.
La Domus (supporto) non accoglie solo l’intelletto dell’artista con il suo inserimento semantico (forma, colore, segno), espressivo e comunicativo, ma tutti gli occhi che, per raggiungere l’etereo vulcano, superano l’umano limite cognitivo.
Domus diventa vivida rappresentazione di un equilibrio tra le due forze di volontà insite nel processo creativo: quella dell’artista e quella del supporto. Due elementi che scambiano informazioni e producono sinapsi, contaminando a vicenda l’uno il volere dell’altro, fino a trovare un equilibrio estetico.
L’ambizioso intervento site-specific di Gulino ha proprio l’intento di applicare il medesimo concetto, presente in tutta la sua produzione artistica in scala ampliata, un addentrarsi rispettosamente nella materia, sfruttando ogni spunto che il monumento (Chiesa di Santa Maria dello Spasimo) gli suggerisce: l’amplia spazialità, la fatiscenza dell’assetto decorativo, le cicatrici del tempo, i soprusi subiti da mani umane, i giochi di luci e ombre, i vertiginosi elementi architettonici e i tragici vissuti della sua storia.
Taciturna, accogliente e guardinga, come madre-domus amorevole, che accetta figli non suoi proteggendoli fra braccia di pilastri e colonne.
Con la sua ricerca Franco Accursio Gulino riesce ad esprimere in maniera fattuale gli scomodi e spigolosi temi della clandestinità (in tutte le sue declinazioni), tramutando la pittura in un legante tra significato e significante: una sindone che rispecchia la sofferenza, il tormento e la paura di uomini in bilico tra la sopravvivenza e l’estensione.
Anthony Francesco Bentivegna
Storico dell’Arte
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