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Immagine del redattoreAnthony Francesco Bentivegna

Stanza 7b


Oltre ai vari motivi latenti che spingono l’uomo (come qualsiasi animale) a trovare un rifugio, esistono anche motivi sociali maturati da uno strano rapporto con l’ambiente (esterno e interno), che è spesso causa d’isolamento: una vaga e malsana idea di immortalità, una fittizia illusione di poter bloccare o classificare (buono o cattivo) il tempo e lo spazio.


Siamo soliti etichettare gli orari di lavoro come attivi (in cui il tempo scorre), e gli orari di riposo come passivi (una pausa che precede un ritorno all’ordine). Ecco perché, tornare a casa ci sembra così soddisfacente, gratificante, appagante.


Siamo soliti identificare l’interno come un luogo che ci tiene al sicuro, l’esterno come un’area in cui siamo soggetti a pericolo. Ciò, si manifesta nel bisogno dell’uomo di sentirsi sereno, nella sua privacy, circondato dai propri confort e lontano dai rischi, al riparo. La paura del pericolo incombente dall’esterno o dal diverso spinge spesso l’individuo a chiudersi in stanze mentali, e ampliando il protocollo di sicurezza all’interno del proprio nucleo affettivo, crea, così, delle separazioni sociali.


Nell’opera Stanza 7b, Flavio Tiberti ci porta a ragionare sull’inganno e sull’occlusione dell’isolamento, sia collettivo che privato. Un intimo candore che tutti noi possiamo trovare all’interno della nostra stanza, un candore mistificatorio spesso autore della nostra chiusura. La confidenzialità verso l’ambiente e le sue parti: il nostro orologio col suo prevedibile ticchettio, il rumore esterno dei motori, il dialogare dei vicini di casa, i versi degli animali da compagnia, le nostre effimere distrazioni, ci cullano verso uno stato di tranquillità.


Di cos’altro abbiamo bisogno? Di chi abbiamo bisogno?

Un dio minore non curante di ciò che accade fuori della propria roccaforte.


Ed ecco….. l’atmosfera diventa pesante, disturbante, opprimente. I rintocchi delle campane cessano il momento infinito di relax e danno inizio a un requiem, al massacro fuori dalla nostra cella di isolamento volontario. Comincia la rincorsa dell’uomo ai fuochi fatui:

ISOLARE, CONSERVARE, BLOCCARE: muri di separazione, fili elettrici e spinati, tutti beceri e nocivi tentativi di tutelare il tempo e lo spazio che noi giudichiamo esatto.


Ma perché ci appartengono?


Proprio come il piccolo individuo chiuso nella sua stanza isolato dai suoi familiari, anche il grande uomo sceglie di separarsi dai suoi simili. Tale problema non si è manifestato solo a Berlino fino al 1989, ma è ancora attuale: America | Messico; Messico | Guatemala; Palestina | Israele; Corea del Sud | Corea del Nord; Iraq | Kuwait…


Una sequela d’immagini cruente e drammatiche che ci obbligano a cercare una via d’uscita, una cura per alleviare questa sofferenza.

Proprio come un uomo sprofondato in mare e incapace di nuotare, cerca appiglio nella speranza: una preghiera che ripete continuamente e ossessivamente come un mantra invocativo, fino a perdere i sensi…


Una lenta morte, un graduale spegnimento causato dalla consapevolezza del male della nostra società, dimenticando, però, di farne parte…

Anthony Francesco Bentivegna

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