Breccia
- Anthony Francesco Bentivegna
- 8 ago
- Tempo di lettura: 3 min
Aggiornamento: 16 ago
Il roboante martellio del cuore che batte avanti e dietro in mezzo alla cassa toracica.
Un sacco di cellophane deforma il viso, occludendo ogni via.
Membra molli, tremolanti, instabili che si infrangono sulla nostra figura come flosci sonagli in legno.
Tutto è ovattato.
I pensieri picchiano ossessivamente su quel dolente nervo scoperto. Lo chiamano in molti modi: panico, ansia, paranoia: io lo chiamo vuoto.
È la consapevolezza di cedere ad una forza di gravità, ad una carica centrifuga che distacca la presenza dal presente, segregandola in un solitario stato di malessere e apatia.
Una sensazione complessa da sviscerare proprio per la sua natura organica e proteiforme, scaturita principalmente dalla correlazione tra esterno ed interno, tra recepito e compreso, tra interiore (io) ed esteriore (gli altri). La continua corsa all’oro dettata da un rigido standard di crescita personale e sociale, sviluppa quell’occhio attento, critico e inflessibile che accusa qualsiasi mancanza, ingiustizia e insidia di un percorso tortuoso senza mai epilogo.
Un continuo aspettarsi di soddisfare un canone dettato da un codice auto imposto con la consapevolezza che qualcosa di irrisolto riemergerà sempre.
Da un lato, barricati da una fortezza intimamente riflessiva, in continua ricerca di appagamento; dall’altro, costantemente proiettati in una rete di iperconnessioni che impone performance e aspettative a noi estranee. Proprio da qui nasce il vuoto che plasma gesti, parole, relazioni. Un vuoto che non nasce dall’assenza, bensì dall’eccesso di stimoli, da pressioni e dall’incertezza su chi siamo e su cosa vorremmo diventare.
All’interno di questo clima disumanizzante si inserisce il lavoro di Luciano Bonaccorso, che tenta di appianare la divergenza tra presenza e assenza, tra vuoto e pieno, inglobando queste dicotomie all’interno di una struttura compositiva in cui il vuoto assume forza e peso specifico, risolvendo, tramite un processo di organizzazione spaziale, il problema di un’elaborazione cognitiva allarmata da elementi lessicali assenti.
La costruzione plastica non si ferma, dunque, ad una disposizione della materia (nella sua corporeità) nello spazio, ma investe l’immateriale di un ruolo decisivo, rendendola un’entità capace di evocare tensione e affaticamento. Tali mancanze diventano brecce che generano voragini nella nostra esemplare ed ineccepibile verità, mettendo in luce la nostra intima e fragile umanità in un continuo ed erosivo tiro alla fune tra dentro e fuori, tra realtà e finzione, tra essere e apparire.
Insoddisfazione e incontentabilità si fanno spazio dentro di noi assumendo una forma concreta e tangibile: un vuoto che si propaga divorandoci dall’interno e, progressivamente, sostituirsi a comportamenti, reazioni e protocolli da eseguire.
Gli archetipi plasmati dallo scultore, nelle loro espressioni di abbandono e di dolore, nelle loro pose provate e annichilite, manifestano, in una fugace presa di coscienza, il proprio disagio, rivelando un rapporto conflittuale e corrosivo con la proprio intransigente ragione: una voce assillante e provocatoria che mette a fuoco, sotto una luce olivastra, limiti e malformazioni di un’anima dolente e mai pronta ad una puntuale e corretta reazione.
Bonaccorso, immortala i propri schiavi del sistema nell’attimo in cui gettano la propria maschera sociale per mostrarsi nella loro simbolica ed iconologica nudità: emblemi di una fragile umanità, costretti a confrontarsi con la propria sofferenza, con la costante paura dell’insuccesso, con l’incontrollabile ansia di prestazione sociale e con l’offuscante panico del non riuscire a rispecchiare il proprio modello platonico.
Testa, busto, ventre, arti, nulla è al sicuro. Il vuoto circoscritto dallo scultore bilancia e allo stesso tempo influenza lo scheletro organizzativo di ogni opera di questo ciclo, assumendo la valenza di uno specchio su cui riflettersi e allo stesso tempo riflettere, per giungere alla convinzione che la nostra interezza è il risultato di pieni e di vuoti, di luce e di oscurità, di visibile e di invisibile.
Anthony Francesco Bentivegna
Storico dell’arte
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