Gioco simbolico
- Anthony Francesco Bentivegna
- 27 set
- Tempo di lettura: 3 min
Aggiornamento: 7 ott
Il gioco, per il bambino, rappresenta non solo un modo per interagire col mondo circostante, ma un vero e proprio linguaggio capace di introdurlo all’interno di una rete relazionale animata da schemi sociali, politici ed economici, propedeutici alle progressive fasi dello sviluppo. Nonostante la complementarietà, bambino e adulto sono separati da una barriera di vetro che consente ad ognuna delle parti di essere osservatore dell’operato dell’altro.
Un bambino che s’intromette all’interno di una discussione sostenuta dagli adulti sarebbe ignorato.Un adulto che s’insinua nel bel mezzo del gioco a nascondino tra i bambini, sarebbe inibitorio.Entrambe le parti riconoscono nell’altra un elemento fondamentale della propria esistenza, ma non lo riconoscono come parte del proprio tessuto sociale. Nello stesso tempo, qualsiasi bambino ambisce a diventare grande e ogni adulto rimpiange il periodo della propria fanciullezza.
Può un bambino risolvere i grandi problemi del mondo? Può un adulto riappropriarsi della propria dimensione ludica?
Questi due interrogativi catturano l’interesse di Nadia De Giorgio, stimolandola ad una visione capace di far scomparire, anche solo per un attimo, la barriera di vetro che divide le due parti, amalgamandone i contenuti espressivo-simbolici e i registri comunicativi.
Questi ultimi, nella pittura di De Giorgio, risultano volutamente compromessi da una viscerale esigenza diegetica che mescola grossolanamente contenitore e contenuto, attraverso l’intermittente e rimbalzante combinazione di pittura e assemblage sulla tela.
Nadia De Giorgio si serve di tale dicotomia per generare il paradosso: colore e oggetto.
Il colore. Canale della riflessione, dell’introspezione, del rigurgito di sensazioni e stati d’animo talmente complessi da elevarsi a proiezione del proprio sensibile sentire.
L’oggetto. Àncora di un ricordo spensierato e leggero, unità incompleta, obsoleta e inutilizzabile, rimessa in gioco, non più come gioco, ma come elemento fondante di un linguaggio visivo.
Medium che collidono tra di loro, scrostando con insistenza qualsiasi banalità, attraverso una caotica imprevedibilità, funzionale a giungere all’enigma, alla domanda scomoda, alla disarmante confutazione del reale, tramite l’opposizione di qualunque regola e regime tecnico.
La denuncia, la presa di posizione, la dichiarazione scottante passa al bambino, a quella figura che mai si prende sul serio, che deve giocare, svagare e divertirsi, senza mai pensare ai reali problemi dell’esistenza.
Ma il bambino sente, avverte, somatizza le difficoltà, lasciandole trasudare attraverso mezzi e canali a lui congeniali.
La rievocazione del proprio fanciullino interiore, conduce De Giorgio a canalizzare la propria necessità espressiva verso la ricerca di una libertà infantile, enfatizzata da stravaganti e disinibite soluzioni estetiche, scaturite non solo dallo studio del disegno infantile, ma soprattutto da un approccio che combina l’istinto del recupero/reimpiego, alla risoluzione delle strutture degli schemi compositivi.
Davanti al collasso della materia/materiale e al confronto con le problematiche compositive/sintattiche, si manifesta la scissione:
la piccola Nadia si sveste dei panni della figura adulta;
osserva curiosa;
corre nella stanza e la mette a soqquadro;
tocca pennelli, giocattoli, giornali e stoffe.
Viene guidata nel gesto;
fino a ritornare nel corpo attuale.
Ciò che avviene all’interno del campo d’azione è la riappropriazione della propria dimensione ludica, fusa con componenti morali dagli obiettivi ben definiti: un gioco nuovo, motivato da competenze acquisite, sedimentate e maturate.
Nella conflittualità tra gli opposti (contenuto/forma, afflizione/spensieratezza), scaturisce la dissonanza semantica, chiave di tutto il pensiero della De Giorgio: riuscire a trattare temi scottanti, spigolosi, spesso densi di motivazioni ambivalenti e contraddittori, attraverso mezzi e strumenti puerili.
In ogni opera di “I Play” vi è una chiara intenzione da parte dell’autrice di mettere a nudo il proprio credo artistico, di esporre tramite l’agglomerato di esperienze pittoriche e anti-pittoriche la propria personale visione dell’arte vista come irrinunciabile opportunità di educare, far riflettere, stimolare, denunciare…
La bambina che un tempo chiedeva ai suoi coetanei di poter partecipare al gioco, oggi, con lo sguardo rivolto ad un mondo profondamente cambiato, invita a recuperare dal proprio fanciullino non gli aspetti irrazionali, ma quelli sinceri e autentici, capaci di abbattere limiti e sovrastrutture socio-formali.
Anthony Francesco Bentivegna
Storico dell’arte
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