Fortezza di dura pietra. Mura come corteccia. Utero entro cui vivere chiusi, protetti. Uno sguardo personale al di là del muro in un’epoca miope e facile, senza contraddittorio.
Flavio Tiberti
«È stato tutto inutile...
Ovviamente non è colpa tua, ma nostra.
Ci siamo sentiti sempre al sicuro dietro di te.
Abbiamo sempre eretto muri di pietra e mattoni per tenere a bada i predatori e i nemici.
Abbiamo discusso e complottato, grazie alla riservatezza che ci garantivi.
Ti abbiamo esteso in lungo e in largo per perimetrare i nostri territori.
E ogni qualvolta cadevi ti ricostruivamo più forte e robusto di prima.
Invidiavamo la tua risolutezza, il tuo rigore.
Per imitarti ci siamo chiusi a riccio con i nostri simili indossando una corazza spessa e inscalfibile, pentendoci, a lungo andare, di questa nostra scelta.
Perché adesso ci sembri così arido, così freddo, così insensibile?
Forse, per l’uso improprio che abbiamo fatto di te, ti stai vendicando?
Anche tu, come noi, ti sei “evoluto”?
Stavolta, però, siamo caduti noi nel tuo tranello!
Adesso stai perennemente con me.
Anche quando esco fuori di casa tu sei sempre lì, nella mia tasca, in ogni schermo.
E non riesco a scrollare gli occhi da te.
Sono ormai assuefatto a te!
Mi rendi forte, coraggioso e impavido.
Quando distolgo gli occhi da te non riesco neanche a tenere lo sguardo fisso su un mio simile.
Accendo la TV, e ancora sei lì!
Mi impedisci di vedere oltre.
Oltre l’aspetto esteriore della gente…
Oltre lo schermo di uno smarthphone o di una televisione…
Oltre le apparenze del mondo…».
Non è la prima volta che Flavio Tiberti usa la sua macchina per compiere un’indagine antropologica. La radiografia della società che ci offre è viziata dall’apatica indifferenza dell’uomo contemporaneo, che dal progresso tecnologico e informatico degli ultimi vent’anni è diventato sempre più misantropo ed individualista.
L’uomo d’oggi è letteralmente assuefatto dal progresso che gli consente di sostituire gli affetti con surrogati digitali, provocandogli un’inappetenza verso tutto ciò che lo circonda.
Cresce in cattività e sicuro della sua razione di “carne in scatola” smette di cacciare, smette di essere curioso, smette di ricercare al di fuori delle “proprie mura”!
Si trova tutto sul web: amici, sesso, immagini, film, musica… Si trova anche il coraggio di attaccare, di ferire...
Fa sentire sicuri, forti, come avere un amico accanto!
Ma questa “Sindrome del Muro” come si manifesta nel mondo pratico di Tiberti?
Instagram - cito testualmente Wikipedia - «è un social network che permette agli utenti di scattare foto, applicarvi filtri, e condividerle in rete». Allora che senso ha nel sec. XXI essere un fotografo se tutti siamo dei potenziali influencer?
Ancora una volta la “Sindrome del Muro” ci ha giocato un brutto scherzo: la facilità tecnica odierna nel fare una foto allontana sempre di più il “fotografo” da quel rapporto empatico che aveva instaurato con la macchina.
Tutto è dimenticato/rimosso: esposizione, tempo di scatto, apertura del diaframma e ISO, per essere sostituito dalla modalità automatica, dalla “Bellezza volto” e da centinaia e centinaia di filtri fotografici da applicare postumi alla realizzazione dello scatto.
Servendosi della fotografia analogica, Tiberti rileva scenari angosciosi e inquietanti, non perché animati da mostri, demoni o creature spettrali, ma immortalando il vuoto risveglia in noi paure ancestrali, come l’ignoto, l’oscurità, la solitudine. L’utilizzo del bianco nelle sovraesposizioni, nelle sfocature dei solidi e nella messa a fuoco delle texture genera nella nostra mente un silenzio assordante, rievocando angosce infantili come quella di perdere di vista, nella folla, i propri genitori.
L’uomo è solo quando, guardandosi allo specchio, non riconosce più il suo riflesso. La sua evoluzione, il suo percorso, l’ha mutato talmente tanto che - esperienza dopo esperienza - non vi è più traccia dell’uomo che desiderava diventare, anzi, in Man in the mirror viene addirittura smaterializzato.
L’uomo è solo davanti al suo vissuto, a uno scenario non più accessibile: i ricordi della sua infanzia l’innocenza, la spensieratezza, la genuinità, sono ormai appartenenti a un tempo passato che non ritornerà, come in Youth dreams.
L’uomo è solo e spaesato davanti a un varco che si apre, davanti a una strada che si prospetta davanti a lui. E davanti a prospettive sconfinate chiude i battenti, rifugiandosi nell’intensità del bianco, per non cadere in preda all’agorafobia (Way out).
Flavio Tiberti ricerca una spasmodica spazialità in schemi rigidi, rigorosi, centrali, quasi matematici, simili a quelli della prospettiva di Piero della Francesca. E in questa esperienza "in prima persona" gioca con la percezione cognitiva mettendola continuamente alla prova.
Il suo operato oscilla tra concettualità poetica [No way out (my boy)] e percezione dei solidi geometrici, una dicotomia che ha come rappresentazione più acuta Here is the news, in cui il vuoto palesato nel bianco diventa accecante, e il nero della maniglia sottoesposta diventa un indicatore, un’anomalia che segnala il soggetto principale: una cordicella che segue l’effetto naturale della gravità. Egli ritrova negli oggetti i sopravvissuti a questa apocalisse intima.
The politician è una rappresentazione della politica attuale, digiuna dai valori e dall’interesse personale, ma ancora di più è l’ultimo frammento d’immagine dell’uomo, sempre più annullato e ormai in balia di un’oscurità che sale gradualmente di livello, affogandolo.
Oggi più di ieri è difficile guardare “oltremuro”. Certo, non tutte le fessure possono essere spaziose come in alcuni scatti di questa serie. A volte lo spiraglio è talmente piccolo, talmente impercettibile, che potrebbe paragonarsi ad un frame cinematografico.
Nell’opera 34361, sembra quasi di trovarsi di fronte ad una porta automatica collegata ad un timer che permette di aprirsi e chiudersi al ritmo di un secondo. Forse lo spiraglio per entrare, anzi, per vedere, passa attraverso quel millesimo di secondo, tra una transazione e l’altra. Tiberti ha teso questo documento cinematografico come se fosse un elastico, e tale flessione, infatti, mette a nudo le trame, i pori dell’oggetto-video. L’estensione in nove ore (34361 secondi), permette, infatti, di creare delle brecce tra un fotogramma e l’altro, generando una pausa che consente al fruitore una stazione riflessiva di un millesimo di secondo in cui il cervello elabora, non le immagini in velocità, ma ogni singolo attimo in cui si può cogliere l’intensità dell’immagine con tutte le sue mille sfaccettature: espressioni facciali, mimica del corpo, sensazioni empatiche, e ancora, luoghi, scene, contesti.
Flavio Tiberti, con questo ciclo ci invita a spegnere il cellulare, a cercare la finestra nella stanza, la fessura nel muro. Non vuole metterci a corrente dell’esistenza di un mondo nuovo e inedito, ma desidera risvegliare il fruitore dalla trance di osservare il vuoto per consentirgli di mettere a fuoco, proprio come una macchina fotografica, il mondo circostante, affinché ne possa cogliere gli aspetti concreti: il godere di un momento che mai più si ripeterà, l’introspezione per ritrovare il nostro io più puro (muro-corazza), l’andare oltre le etnie e la condizione sociale, per comprendere che siamo fatti della stessa materia (muro di facciata).
Solo in questo modo possiamo rivedere noi stessi nel riflesso dello specchio.
Solo in questo modo possiamo avere il coraggio di oltrepassare una breccia.
Solo in questo modo possiamo guarire dalla “Sindrome del Muro” che ha reso miope la società.
Anthony Francesco Bentivegna
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