«Anche oggi hai raggiunto il tuo traguardo…, meriti il tuo tanto agognato premio.
Stacchi dal lavoro, timbri il cartellino, esci dall’ufficio e ti immergi nel caos del traffico cittadino, bramando quella tua ragione di vita, quel tuo punto fermo, quella tua complice…
Parcheggi, sali le scale di casa, apri la porta e corri verso di Lei …
La prendi per la mano e vi lasciate cadere insieme sulla vostra poltrona preferita.
Cominci a massaggiarla con i tuoi polpastrelli…, fino ad arrivare ai suoi punti più sensibili.
È calda…, adesso è lei a massaggiare te.
Ti sfiora le tempie, ti trastulla il cervello, confonde la tua percezione.
Le palpebre diventano pesanti.
Cadi in un sonno profondo».
Per un importante lasso di tempo lo spettatore accantona la propria vita per rivestire i panni del presentatore, dell’attore protagonista, del concorrente vincente, sentendosi parte integrante della trasmissione. Tale annullamento è sintomo di un’interazione macchina - uomo deleteria, in cui quest’ultimo regredisce ad un mero hardware-uomo che risponde agli impulsi del software-intrattenimento. Si illude di avere, giorno dopo giorno, sempre più controllo, sempre più scelta, sempre più varietà di trasmissioni e canali da fagocitare, ignorando di essere succube di un ridondante predatore che dalle sue origini si è sempre più evoluto e adattato: lo smartphone ultrasottile (oggi), la televisione a tubo catodico (ieri).
E se la virtualità fosse un guinzaglio allentato, un supporto che consentirebbe molte più strade di quelle che l’uomo vede? Esiste il modo di diventare il burattinaio, il direttore di spettacoli e fare di un’attività passiva un atto creativo? Esiste un modo per scomporre la sequenza delle immagini proposte, ricomponendole in maniera metatemporale e metaoggettuale?
“Rumorebianco” di Flavio Tiberti, indaga proprio su questo dualismo (off e on): l’uso insano e passivo che lo spettatore fa del virtuale e il concetto di fruitore-attivo in grado di superare le infrastrutture grammaticali e sintattiche dell’immagine. Un’entità pensante che diviene mutevole protagonista e fruitore di un ready-made in grado di effettuare salti tra immagini dissociate scaturite da fonti opposte e ricucite per creare nuovi e alternativi contenuti espressivi, analizzando, frantumando, destrutturando e poi ricostruendo l’immagine trascendendo qualsiasi tipo di legge logica e temporale. Un’operazione dadaista in cui l’autore, partendo da prodotti finiti, crea un racconto dubbio, fittizio, surreale senza un preciso inizio ed un’inevitabile fine. Un racconto dall’atmosfera sfocata, nebulosa, confusa in cui impera un processo di graduale regressione della ragione, sostituita da una sentinella notturna che osserva ipnotizzata l’abisso del vuoto.
Quel bambino che creava il suo amico immaginario, pensando con cura alle sue fattezze, al suo abbigliamento, al suo linguaggio e ai suoi gesti è diventato un uomo che sfugge alla propria solitudine e alla propria insoddisfazione, trovando, non più un amico, ma una bramosa, ingannevole e lussuriosa Circe fatta di pixel.
Display. Composto da parti, da spazio e da tempo. Stazioni e canali, come un passaggio da paesi e da culture differenti: > il cooking show > il dibattito > la domenica sportiva > … (spazio). Ogni canale, ogni spettacolo, ogni programma con un inizio e una fine (tempo).
Televisione vista non più come schermo stregante e ipnotizzante, ma come una serie infinita di frame e di suoni da smontare e rimontare.
Proprio attraverso quella parte creativa del cervello che nel buio costruisce immagini amorfe in movimento l’uomo esercita quella facoltà demiurgica, ascoltando quel bisbiglio che da un secondo all’altro si fa più lieve, annichilito, trasparente, fino ad essere completamente coperto da rumori assordanti e devianti.
Immagine come argilla plasmabile. Schiacciamola, fino ad ottenere una poltiglia informe. Modelliamola, fino a farla diventare il nostro oggetto. I lunghi tempi di scatto compromettono, smembrano le divinità televisive (avatar dello spettatore), plasmandole e confondendole tra di loro. Il bianco candido e i toni di grigi, sempre più contaminati da una germinazione di particelle nere e da sempre più insistenti sovrapposizioni, rendono i soggetti meno comprensibili. Un amplesso che tocca il suo apice in un orgasmo appagante e liberatorio, per poi sprofondare in un baratro di tristezza e follia dove regna un senso di vuoto. Un vuoto dato dalla passività dello spettatore che sostituisce il proprio io con una fuorviante “voce della coscienza”. Una Circe contemporanea che degenera, deforma l’intelletto dell’uomo tramutandolo in bestia.
Anthony Francesco Bentivegna
Storico dell’Arte
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